Milano 21 settembre 2019
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Che cosa è la fatica?
Perché proviamo fatica?


Può la fatica cognitiva condizionare la performance atletica?
Sono queste domande, all'apparenza molto banali, a cui la scienza stenta a dare
un risposta precisa e coerente.
Il primo studioso ad interessarsi dell'influenza della fatica sulla performance
sportiva fu il fisiologo torinese Angelo Mosso (1891) che scrisse, nel lontano 1891, un
libro dal titolo “Fatica”.
Nel suo libro Mosso intuì che la fatica è l'integrazione di un fenomeno “centrale”, a
livello di sistema nervoso centrale con uno “periferico” che si verifica a livello
muscolare.
Riteneva che la fatica centrale fosse predominante su quella periferica e che
questo era un meccanismo di protezione per l'organismo.
In sintesi il senso di fatica insorge prima che l'affaticamento periferico giunga ad
un livello tale da compromettere la funzionalità fisica.
Quest'affermazione che appare sensata e ovvia è stata ignorata per quasi 100
anni fino a quando alcuni eminenti ricercatori quali Noakes (2011a; 2011b), Di
Giulio (2006), Marcora (2009) e Amann (2011) l'hanno riproposta con forza,
mostrando come tra sistema nervoso centrale e muscolo ci sia una continua
comunicazione sullo stato di affaticamento. Noakes (2005) ha proposto un
modello noto come “Central Governor Model” in cui il sistema nervoso centrale
influenza il reclutamento dei motoneuroni e, di conseguenza, la quantità di fibre
motorie reclutate.
Seguendo questo modello se rallentiamo perché il ritmo di una corsa è troppo
elevato non è a causa dei metaboliti prodotti a livello periferico ma perché il
sistema nervoso rileva una concentrazione di metaboliti pericolosa per
l’organismo e conseguentemente riduce il reclutamento delle fibre motorie.
La riduzione delle fibre reclutate causa una minor potenza meccanica espressa e
quindi il rallentamento.
Come abbiamo detto questa teoria, nata un secolo fa, è stata parzialmente
accettata solo recentemente, infatti fu il modello del premio Nobel Archibald
Vivian Hill ad affermarsi fino ai giorni nostri.
Hill era un fisiologo che studiava principalmente la fisiologia del muscolo.
Rilevando la presenza di metaboliti nel muscolo affaticato ritenne che la fatica
fosse un fenomeno esclusivamente periferico. Interpretando il risultato di un
esperimento condotto da altri due premi Nobel, Laureate Frederick e Gowland
Hopkins, sulla produzione di acido lattico a livello muscolare in conseguenza
dell'aumento dell'intensità di esercizio, Hill ottenne quella che ritenne la prova
inconfutabile della sua linea teorica.
La sua influenza sulla comunità scientifica mise una pietra tombale sulla ricerca
inerente le cause della fatica per oltre un secolo! Il problema della teoria di Hill, da
lui stesso individuato, è nello stesso concetto di affaticamento.
Secondo il fisiologo l'affaticamento è legato alla produzione di acido lattico
provocato dall'ipossia tissutale, si pensava al tempo che ad una certa intensità
dello sforzo si creassero nel muscolo delle zone ipossiche, la produzione di acido
lattico sarebbe una conseguenza del lavoro anaerobico il cui accumulo provoca
una interferenza nell'accorciamento delle fibre motorie.
Se, tuttavia, la fatica è causata dall'ipossia tissutale e una persona è
particolarmente motivata allo sforzo, sarebbe in grado di proseguire l'attività
creando una necrosi tissutale.
Essendo il cuore il primo muscolo a raggiungere intensità massimali durante lo
sforzo, un atleta molto tenace potrebbe creare danni al cuore.
E' evidente che, come notato da Noakes (2005), questo non può avvenire e ci
deve essere un controllo di altro genere che faccia terminare lo sforzo prima che
si verifichi un problema serio.
Nella teoria del Central Governor Model è il cervello a regolare e controllare
l'intensità dell'esercizio.
Lo scopo degli allenamenti è quindi sia di provocare alterazioni metaboliche
periferiche che di ricalibrare il set-point di controllo dell'intensità a livello del
sistema nervoso.
In modo molto semplice, più un atleta è allenato e più il punto di “allarme” nel
cervello è elevato.
Ci sono delle condizioni di estremo pericolo in cui il cervello permette di
bypassare il set point preferendo sacrificare alcune funzionalità al fine di garantire
la sopravvivenza.
La massima forza esprimibile volontariamente da una persona non allenata
(anche eccentrica) è circa il 10-15% inferiore alla forza massima possibile, tuttavia
in letteratura sono riportati casi di casalinghe, senza alcun tipo di allenamento,
che hanno sollevato la parte anteriore di un'automobile per estrarre il figlio
investito.
Si tratta di pesi che si aggirano attorno ai due quintali!
E' stato dimostrato che atleti di powerlifting riescono, con i loro allenamenti, a
restringere il gap tra massima forza volontaria e massima forza esprimibile fino a
circa il 5%.
Le capacità mentali si rivelano sempre più come l'ago della bilancia nel
determinare gli adattamenti verso l'alta prestazione.
La capacità di sopportare la fatica permette di superare costantemente di una
piccola percentuale il limite fisiologico.
Il monitoraggio psicofisiologico consiste nella rilevazione del grado di attivazione e
funzionamento dell’organismo.
È un approccio interdisciplinare alle classiche questioni relative al funzionamento
della mente ed al suo rapporto con il corpo, che tenta di dare risposte integrative
ed olistiche ai problemi sollevati, da sempre, da filosofi e scienziati circa il binomio
corpo-mente (Cacioppo, Tassinary e Berntson,2007).
Nel mondo dello sport, può essere utilizzato per migliorare la comprensione dei
processi sottostanti la prestazione sportiva, per poterla successivamente
incrementare od ottimizzare (Hateld e Landers, 1987).
Le tecniche che si stanno utilizzando per questo tipo di monitoraggio
comprendono, ad esempio
L’Elettromiografia (EMG), L’elettrocardiografia (ECG), l’elettroencefalografia
(EEG), la risonanza magnetica funzionale (FMRI),
ma anche altre tecniche più semplici che misurano l’ attività elettrodermica
(EDA) o il ritmo respiratorio,tecniche e strumenti che ne consentono l’applicazione
sono state rese possibili dalle ricerche di fisica medica e dalle sue implementazioni
bioingegneristiche
Il monitoraggio psicofisiologico rappresenta una fonte ricchissima di informazioni
che riguardano l’atleta: frequenza cardiaca, variabilità della frequenza cardiaca,
onde cerebrali, attività muscolare e del sistema nervoso autonomo sono tutti dati
di fondamentale importanza, in quanto hanno consentito e consentono
di comprendere la prestazione in tutta la sua complessità.
Le tecniche fisico-mediche descritte in questo articolo per il monitoraggio
rappresentano metodologie molto utili alla comprensione dei processi sottostanti
la prestazione sportiva, in particolare dei processi corticali

 

CurtisStevens